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Tornare alla realtà?
Henri Matisse, Danse (I). Paris, Boulevard des Invalides, 1909, Moma Museum of Modern Art, New York

 L’evento “politico” più rilevante di questa turbolenta estate 2011 (lo dico con leggerissima esagerazione) è stato l’annuncio del convegno filosofico sul “nuovo realismo” che si celebrerà il prossimo anno a Bonn, con l’organizzazione di Maurizio Ferraris ed il coinvolgimento, tra gli altri, di Umberto Eco, Paul Boghossian e John Searle.
 
Prima ancora che alla crisi economica occidentale, ai terremoti della finanza, alla primavera araba, alle rivolte urbane di Londra, Atene, Tel Aviv, prima ancora che alla Cina che ordina le riforme agli Stati Uniti, insomma prima che agli avvenimenti di un mondo quasi capovolto su se stesso, la nostra attenzione dovrebbe rivolgersi al perché un gruppo di autorevoli filosofi abbia deciso di discutere se il tempo del postmoderno sia finito e se non sia opportuno superare la “società liquida”, per tornare a un modello “forte”, tornare alla realtà. Un nuovo realismo, appunto.
 
L’esagerazione, ripeto, è solo parziale. Al di là dello specifico convegno in Germania e delle tesi che ne verranno, la portata dell’argomento e le sue implicazioni sono così vaste e direi prioritarie, da interessare tutti gli aspetti salienti delle nostre vite, dalla precarietà del lavoro alla questione ecologica, dalle quotidiane ricadute della globalizzazione fino ai grandi temi antropologici contemporanei, come quello della multitasking generation, cioè la generazione di chi (tutti noi, o quasi) legge le mail mentre scarica un’applicazione mentre chatta mentre ascolta l’ipod mentre guarda la tv mentre parla al telefono mentre consuma un pasto. Cioè, l’individuo immerso nell’intrigo (non solo informatico) della vita postmoderna, dove non c’è una strada ma un reticolo, non un percorso ma un labirinto, non un terreno ma un fluido, un vapore, una teoria di nuvole. Insomma non una “realtà” ma un insieme infinito (buono, cattivo, affascinante, terribile, suggestivo, angoscioso, spiazzante) di cose possibili.
 
Il dibattito seguito all’annuncio del convegno di Bonn, a partire da quello sulle pagine de La Repubblica tra due protagonisti storici del postmoderno in Italia, Gianni Vattimo e lo stesso Ferraris (postmoderno pentito), ha offerto alcune delle coordinate utili a capire perché il tema, solo apparentemente astratto, è invece vivissimo. Fatto non solo di concetti ma di corpo, sangue, emozioni, interessi.
 
Con il termine postmoderno abbiamo indicato, nel corso del tempo, una moltitudine di tratti specifici, la società postindustriale e la crisi dei grandi sistemi scientifici e filosofici, la decostruzione dell’arte e la cultura pop, il mondo virtuale e la società liquida o addirittura gassosa. Insomma, la contemporaneità in moltissime sue forme. Ma in generale - ed è il tema che più ci interessa - il postmoderno è stato una rivoluzione culturale che ha attraversato la società del ‘900 e ridisegnato gran parte del nostro mondo, con l’obiettivo prioritario di liberarlo dalle strutture piramidali della “realtà”: la scienza rigida, il potere religioso, le ideologie, la violenza delle figure gerarchiche sociali, familiari, economiche, l’arroganza dell’etnocentrismo (l’uomo occidentale che domina sugli altri uomini) o del fallocentrismo (l’uomo/maschio che domina sulla donna) o dell’antropocentrismo (l’uomo che domina sulla natura).
 
Qui, dunque, la missione del postmoderno: abbattere i grandi simboli del moderno e il loro potere opprimente. E qui il sogno del postmoderno: veder nascere, dalle macerie di quei monumenti, un’umanità nuova, gentile, “debole”. Un’umanità decentrata, complessa, interessata non ai grandi disegni totalizzanti ma ad un fare più possibilista e positivamente incerto. Un’umanità che fosse felice di abitare il piccolo, capace di apprezzare il vuoto e pronta ad organizzarsi in una pacifica convivenza con se stessa e il resto del vivente.
 
Appare chiara, in questo senso, anche la relazione intercorsa tra il postmoderno e la filosofia ecologista, nata dalla ribellione a una concezione umana tutta volta agli obiettivi della conquista e del dominio e impostasi proprio come pensiero della rete e della diversità, oltre che come visione generalmente ecocentrica (l’uomo non è il centro del mondo; e anzi, il centro del mondo non esiste). Quindi, come un’esperienza che in molti sensi, sebbene non in tutti, può dirsi tipica del postmoderno.
 
Il postmoderno ci ha dunque regalato, almeno in linea di principio, un mondo più aperto, più predisposto all’ascolto e all’accoglimento. E’ il mondo dei diritti diffusi, dei confini meno marcati, della rete che tutto collega, delle culture che si sposano. Una nuova, grande speranza collettiva e individuale.
 
Ma allora perché, dinanzi a esiti tendenzialmente così fortunati, invocare un superamento del postmoderno? Perché, e in che senso, tornare alla realtà?
 
Perché c’è un rovescio della medaglia, che ha la causa nel carattere principalmente negativo,  oppositivo della cultura postmoderna. La quale è stata abilissima nella parte destruens, nell’abbattere il vecchio mondo, ma al momento della ri-costruzione ha tradito una specie di rifiuto, di sacro timore. Si è ritratta, come se nel “costruire”, nel “progettare” avesse individuato un esercizio cattivo in sé, un’operazione sempre e comunque oppressiva (forse è per questo che l’architettura contemporanea è così obliqua, decostruita. Per negare un po’ sé stessa, sfigurare la propria identità costruttiva). Amore per l’opposizione, sospetto per il governo: potremmo semplificare in questo modo la filosofia del postmoderno. Antisistemica in sé, a prescindere dal tipo di sistema.
 
Tutto ciò ha avuto e continua ad avere delle conseguenze.
 
Anzitutto, la rinuncia all’edificazione di una politica alternativa universale, col risultato che uno straordinario patrimonio di idee, spunti, riflessioni, argomenti sociali e scientifici è restato a un livello di cultura e frammento, senza farsi compiutamente politica e sintesi. Gli alternativi sono rimasti alternativi, cedendo al fascino spesso irresistibile e talvolta tragico dell’alternativa costante.
 
Contemporaneamente, la politica classica si è dissolta. Ha rinunciato a sé stessa per diventare gestione. Non più strategia ma tattica. Non più governo ma governance, in un gioco al ribasso che, ogni giorno di più, ha reso e rende il mondo ingovernabile. Ingovernabile perché ingovernato e non ingovernato perché ingovernabile.
 
Intanto, la bellezza del “frammento”, dell’esistenza mobile, leggera, ha mostrato un risvolto cupo, di natura sociale ed esistenziale. Il “mobile” è diventato precario: precario il lavoro, precario il futuro, precari gli affetti, in un orizzonte di crisi esistenziale talvolta anche molto profonda, perché è affascinante fare dell’incertezza un esercizio linguistico ma molto difficile convivere con l’incertezza, se questa è la condizione ordinaria della quotidianità.
 
Inoltre, il sostanziale vuoto di potere (di potere visibile, tradizionale) determinatosi con i tempi postmoderni, ha offerto lo spazio alle nuove forme di dominio. Postmoderne anch’esse. Sottili, invisibili, insinuanti ma non meno tremende (una sorta di metamorfosi del male o, se preferite, di diavolo che veste Prada). Cos’è realmente Standard and Poor’s? Dov’è? Che volto ha? Esiste realmente? Perché la vita delle persone deve dipendere da un’agenzia di rating? E chi sono i banchieri centrali? Cos’hanno a che fare con il nostro cuore che batte, desidera, viaggia, spera, sogna? L’antico dividi et impera ha assunto oggi il profilo di una fabbrica delocalizzata, di un immenso centro commerciale, di una competizione tra indici di produttività, di un oggetto di consumo programmato per durare poco o persino di un social network, se dentro la community non vibra il senso di una più legata, profonda comunità.
 
Infine, lo spettro del premoderno, cioè la minaccia del superamento all’indietro della cultura contemporanea, del ritorno al pre-illuministico Dio, Patria, Famiglia. Come dire: “la società di oggi è caotica e nichilista, dunque torniamo ai buoni vecchi tempi”. E’ il principio che guida i nuovi fondamentalismi internazionali (i Tea parties, per citarne uno, o la terribile ondata nazionalista del centro e nord Europa), ma anche un più prosaico tentativo di recuperare certi privilegi perduti, favorito paradossalmente da quella che dovrebbe essere la forza del postmoderno: cioè, la sua “debolezza”.
 
Detto questo, in che modo un ritorno alla realtà rappresenterebbe una soluzione a tutto ciò? E cosa dovremmo intendere per “realtà”?
 
Realtà è anzitutto fare i conti con la natura: maturare una più piena consapevolezza dell’esistenza concreta di piante, animali, paesaggi, acqua, aria, habitat naturali e al contempo dei loro bisogni e della loro limitatezza, così come del benessere che possono regalarci. Può anche darsi che – come immagina la fantascienza e sostengono certi critici dell’ecologismo, spesso in malafede - la biotecnologia saprà un giorno surrogare interamente la natura. A occhio e croce mi sentirei di escluderlo e tuttavia, nel caso improbabile e comunque inquietante dovesse accadere, quel giorno ne riparleremo. Ma oggi la natura è qui, dentro e intorno a noi, realmente. Ignorarlo non è postmoderno, è stolto.
 
In secondo luogo, realtà è una più intensa missione della politica, a partire dalla domanda retorica: è possibile far fronte alle gigantesche sfide globali così come a quelle non meno serie dell’amministrazione locale – l’urbanistica, il rapporto economia-territorio, la qualità della vita, per fare alcuni esempi- con l’idea che la politica sia solo l’arte di aggiustare il presente, la pura mediazione degli interessi? Con tutto ciò che, da una politica così ontologicamente debole, consegue in termini non solo di scarsa efficacia ma anche di deficit di trasparenza e moralità?
 
Ancora, realtà è un nuovo confronto sui valori, sull’educazione. Un tema che è come una rosa, spinoso e delicato. Chiama in causa la scuola, gli strumenti di formazione e informazione, il mondo del volontariato, la dimensione comunitaria. Volerlo risolvere nel neoautoritarismo di un redivivo Grande Maestro, pre-sessantottino, che insegni frontalmente cosa e come, sarebbe comico prima ancora che velleitario. Invece, il mondo a rete, in cui ogni strada è possibile e assomiglia ad un’altra, presta il fianco a quella che potremmo chiamare la sfida di senso. Perché una strada e non un’altra? Solo il caso? Perché un link e non un altro? Dove desidero andare? Sono certo di non avere voglia e necessità, anche esistenziale, di un filo di Arianna? Quando, se non nell’epoca del labirinto, è necessario recuperare alla conoscenza una dimensione di significato che trascenda l’accumulo di informazioni (o di esperienze o di amici) e anzi serva a dare, alle informazioni, un senso, un senso di marcia, una ragione? Evidentemente, si tratta di un problema culturale ma anche sociale, professionale. Conoscere ha una ragione se dà alla mia vita una ragione, un significato; se la mia vita migliora, diventa più felice, se conoscere/studiare mi arricchisce spiritualmente e mi conduce a un lavoro. Altrimenti la scuola e in genere l’educazione non avranno la benché minima chance, perché non c’è insegnante/formatore colto, e coraggioso e volenteroso, che possa competere con un microsecondo di un qualunque motore di ricerca. Uomo-rete, formatore-internet: una sfida del tutto impari che però assume un altro volto se illuminata dal tema del senso della vita.
 
Inoltre, realtà è ciò che non abbiamo ancora vissuto. E’ il tempo di là da venire. Dico questo per mettere in chiaro che sarebbe il caso di rifuggire ogni programma identitario, ogni rigurgito tradizionalista. Se e comunque si determini, il nuovo realismo non dovrà avere occhi di nostalgia ma occhi aperti all’invenzione, ai frutti dell’ingegno, all’interesse per i tempi futuri, che sono sempre tempi di nuove storie e nuove vite, come lo sono stati i tempi passati. Occhi felici di guardare la straordinaria combinazione di natura e tecnica, intelligenza e respiro di cui l’uomo può essere capace. Insomma un andare avanti, verso una realtà nuova (a new realism, appunto) e non il tentativo di recuperarne una vecchia versione, comunque scaduta, superata.
 
Sarebbe allora molto interessante, per concludere, se il nuovo realismo, nel caso diventi davvero qualcosa, volesse pensare a se stesso come a una seconda fase del postmoderno. Salvando lo spirito liberatorio e viaggiatore del postmoderno, lo slancio iconoclasta e persino nichilista (perché il lavoro non è finito, perché ci sono e ci saranno, ancora e sempre, una moltitudine di no da dire, ribellioni da attuare, muri da abbattere), ma dando ad esso una seconda missione, questa volta costruttiva, e una meta più chiara alla fine del viaggio. Sarebbe un modo intelligente per gettare l’acqua sporca e salvare il bambino, stimolandolo all’età adulta. Noi siamo soprattutto fluido, liquido. Siamo acqua all’80%. Siamo pensiero, che è volante. Siamo spostamento. Cioè, siamo in gran parte postmoderni. Ma abbiamo anche bisogno di solidità, di casa, di “reale”. Direi di un cielo di stelle fisse (diritti inalienabili, beni comuni, natura protetta, valori universali) sospeso sulla terra delle cose in movimento.
 
Vedremo cosa sarà, a Bonn, la prossima primavera, se solo concetti o anche spunti di esistenza, lezioni di vita. In ogni caso, se a Tripoli, Damasco, Wall Street, Berlino, Kabul bruciano gli incendi dell’emergenza di questa turbolenta estate 2011 e forse di un’epoca intera, i pozzi profondi dell’acqua per estinguerli sono altrove, nelle regioni della sfida che il pensiero, la riflessione di noi tutti, nessuno escluso, deve lanciare a questo mondo che necessita e a volte urla il cambiamento.

 

 

Data: 05/09/2011
Autore: DANILO SELVAGGI
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