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ProgettoI colibrì si salvano con il ripristino dei loro habitat e con i "santuari". Gli "allevamenti" sono inutili
I colibrì si salvano con il ripristino dei loro habitat e con i

Di Andrea Brutti

  I progetti di conservazione hanno come obiettivo la reintroduzione nell'ambiente naturale di specie animali o vegetali particolarmente minacciate, in modo che possano tornare a riprodursi e a riprendere il loro ciclo biologico.
  Si tratta di un percorso lungo e articolato, che prevede numerose fasi, prioritarie rispetto alla riproduzione e all’allevamento in cattività delle specie oggetto dell’intervento. Anzitutto, dopo i doverosi studi scientifici, vi è il ripristino degli habitat, unito alla sensibilizzazione e all’educazione dei cittadini e delle autorità – elemento necessario anche a prevenire atti cruenti nei confronti degli animali.
  Solo dopo aver avviato questo difficile percorso, si può tentare l’allevamento e al liberazione di esemplari: una fase, quest’ultima non sempre necessaria, perché gli animali, trovando più risorse ed un ambiente tutelato, non hanno generalmente difficoltà a riprodursi con successo, senza intervento dell’uomo. 
  Inoltre, una caratteristica fondamentale dei progetti di conservazione è quella di eseguirli in loco, in modo da poter essere veramente efficaci. Mi vengono alla mente i famosi “santuari” per scimpanzé, in Africa, oppure, un esempio che molti di noi conoscono: la  liberazione e il monitoraggio delle specie selvatiche curate, per varie cause, dai centri recupero fauna, che seguono l’animale anche dopo la reimmissione,  per valutarne il successo, coronato dalla riproduzione. Nel caso dei colibrì, invece, le cose sono andate diversamente. Si può definire questo un progetto di conservazione?
 
Chiaramente, la questione non è quella legata ai fondi per salvare la vita degli animali: questo è ormai un dovere etico delle istituzioni che hanno autorizzato il “centro colibrì”. Invece, è necessario chiedersi se questo progetto, come altri, abbia veramente una efficacia a livello conservativo, laddove conservazione non significa semplicemente mantenere in vita degli esemplari in una sorta di reclusione poiché altrimenti sparirebbero.
  Infatti, come detto sopra, l’obiettivo da porci non è la sola sopravvivenza dell’animale in oggetto, poiché in questo modo si cura, in maniera anche molto discutibile, l’effetto e non la causa dell’estinzione, su cui invece è necessario intervenire per prevenire la perdita di biodiversità animale e vegetale.
  Dagli elementi in mio possesso, rimango molto perplesso, poiché non riesco a trovare il senso nel detenere esemplari di colibrì in un continente diverso dal loro, senza alcuna azione nel luogo in cui questi splendidi uccelli vivono, e con l’obiettivo di studiare un nettare artificiale che sopperirebbe a quello naturale delle foreste amazzoniche. E poi, quale sarebbe il passo successivo? Si sparge questo nettare nel territorio del sud America per far sopravvivere i colibrì?
 
Coinvolgere i paesi interessati, con la creazione di relazioni, con azioni in loco, con la creazione di un fondo per ripristinare l’habitat, educare, sensibilizzare ed eventualmente costruire un centro specialistico per il recupero dei colibrì: elementi che avrebbero avuto anche una finalità sociale in territori così poveri. Forse, in questo modo l’obiettivo della tutela dei colibrì poteva essere raggiunto con un risultato concreto e tangibile.
 
Mentre, posto in questo modo, il progetto colibrì mi richiama alla mente quella “conservazione” che viene pubblicizzata negli zoo, e che si riduce ad una collezione di animali, anche molto rari,  ma che rimangono lì, eternamente reclusi, e non contribuiscono certo alla conservazione. Un ultimo pensiero: non è che questo nettare artificiale verrà venduto e alimenterà i colibrì destinati collezioni private o ad alcuni zoo? 

Fotografie di Andrea Brutti

Data: 12/10/2010
Autore: claudia arzilli
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